I cartelli di protesta erano di uno sgualcito cartone (tra i 5 e i 6 milioni di lavoratori pronti a lottare), le strade piene di fango e di gente (scioperi per mezzo miliardo di ore di astensione dal lavoro), le moto fatiscenti, gli abiti e le tute da lavoro consumati dall’uso (46 contratti di categoria da rinnovare, cassa integrazione di massa soprattutto alla Fiat e alla Pirelli). Sono passati cinquant’anni ma ne sembrano trascorsi mille, ere geologiche che hanno trasformato quei volti segnati dal vento e dal freddo, quelle mani sporche e soprattutto quegli occhi pieni di voglia di riscatto da tutto questo. Era il 1969 e il giovane Mauro Vallinotto era lì, armato della sua straordinaria macchina fotografica, in mezzo a quelle persone scese in piazza per protestare. Un momento, l’ottobre di 50 anni orsono, poi passato alla storia come l’Autunno caldo. Un autunno in realtà nato a luglio, come si legge nel bel volume in uscita per Laterza, ”Torino’69’ con le foto del mitico Vallinotto appunto e i testi degli altrettanto mitici Ettore Boffano e Salvatore Tropea. Quel 3 luglio aprì ”un’epoca di per sé relativamente breve ma senza precedenti e dopo la quale niente fu più come prima. A Torino e nel resto d’Italia”.
Un bianco e nero che a volte sgrana in un meraviglioso puntinismo, sfoca in un disadorno racconto di particolari che, nella lente del tempo, appaiono mitici. Il dolore e la fatica della vita in fabbrica, giovani e vecchi colti alla catena di montaggio, in pausa, mentre mangiano cibo portato da casa con il ‘barachin’, in sella, sul piazzale della stazione invaso dall’acqua della pioggia, il sorvegliante con la mantella e le strade coperte, d’autunno, già dalla neve. Le teste, quelle teste sul tram piegate dalla fatica, dal sonno della sveglia all’alba, dalla stanchezza. Italiani immigrati a Torino, da patria a patria come non fosse lo stesso paese. Come la famiglia Geraci, ritratta da Vallinotto nella soffitta di via Bunivia con quei bambini dagli abiti dimessi sul letto sgualcito, che ci ricordano altri bambini, tragedie che oggi sembrano appartenere ad altri. Torino per loro città ”sbagliata”, perché bambini sottratti ”alle tradizioni affettuose, in qualche modo accudenti, pur nella povertà, della società contadina del sud”. E poi Mamma Fiat, le macchine, gli stabilimenti, l’avvocato Agnelli nella sua iconica eleganza, i presidi (a volte con il sorriso sulle labbra). Infine i volti noti, quelli che avrebbero segnato, in un modo o nell’altro, i decenni successivi: dallo stesso Gianni Agnelli e il fratello Umberto, a Bruno Trentin, Donat-Cattin, Chiaromonte, Lama, Sofri, Deaglio, Bobbio, Ravera, Novelli, Dario Fo e Franca Rame.
Cosa resta di quell’anno? ”Niente”, considerando che quasi tutto, come era in quel momento, è scomparso (Fiat compresa), ”Molto, invece, se la memoria non si fa tradire dalla nostalgia e serve per comprendere, ormai con il distacco della storia, un sommovimento epocale per l’Italia”.
Alla fine la foto simbolo con Agnelli che esce – teso, sportivo, trionfante – dal salone dell’automobile con dietro Giovanni Nasi, e fuori sulle scale seduto, sfinito, un operaio sgualcito che lo guarda dal basso: ”In fondo, la battaglia di quei mesi (e anche il suo finale, i ’35’ giorni e la ‘marcia dei 40 mila’) è tutta qui: riassunta da due uomini, da due destini e da due condizioni agli antipodi della scala sociale. E la bravura dei grandi fotografi è proprio quella che nasce dalla capacità di essere al posto giusto, dalla fortuna di combinazioni che sembrano impossibili, da uno scatto che sa raccontare la vita. creando i simboli di un’epoca”. Mauro Vallinotto era lì.
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